ARTICOLO 005 – Inno alla speranza (Marco Russo)
Inno alla speranza
di Marco Russo
«Non c’è niente che abbia senso, è tanto tempo che lo so.
Perciò non vale la pena far niente, lo vedo solo adesso».
A pronunciare queste parole è Pierre Anthon, studente tredicenne, antieroe maledetto al centro della narrazione del romanzo Niente di Janne Teller. Questo senso di alienazione esistenziale, molto più comune nei giovani di quanto le cronache non facciano apparire, viene troppo spesso messo a lato, tra le fila delle patologie psichiatriche, di sicuro non in mezzo a faccende a cui può interessarsi la società normale.
Pierre Anthon sale su un albero, e inizia a esercitarsi a fare quello a cui ognuno di noi è destinato: niente.
A nulla conducono gli sforzi dei compagni di classe per aiutarlo, se non addirittura al tracollo definitivo della situazione. A Pierre Anthon non è rimasto più niente, ma ha dentro di sé un’immutabile e incrollabile certezza: «Non vale assolutamente la pena esistere».
Una volta pronunciata questa sentenza, che altro si può aggiungere? Che altro si può fare che abbia un briciolo di senso? «Ciò che è stato è quel che sarà; ciò che si è fatto è quel che si farà. Non c’è nulla di nuovo sotto il sole.» (Ecclesiaste, 1, 10).
Queste evocazioni, per quanto possano apparire per niente attinenti al tema della speranza, sono in realtà a esso saldamente legate. Non si può sperare senza percepire l’intima sensazione che fare qualcosa è ancora possibile; che ancora non siamo giunti alla fine della storia, ma ci troviamo soltanto a uno dei suoi possibili inizi. Il bivio di fronte a cui ognuno di noi si ritrova è dunque questo: seguire le orme percorse da Pierre Anthon, o mettersi alla ricerca di qualcosa di più grande.
Quando si parla di educazione, inevitabilmente, la scelta di percorrere la prima o la seconda strada è di primaria importanza. Proiettandoci alla fine della storia, che altro ci rimarrebbe da offrire alle nuove generazioni se non rottami di ciò che fu ed è ora privo di ogni significato?
Quali valori, quali ideali possiamo trasmettere, se tutto ciò che il nostro sguardo abbraccia non è altro che un rimasuglio di un mondo vuoto, inanimato, destinato a inabissarsi? Al contrario, rifiutare con vigore una simile prospettiva, ci pone all’inizio di qualcosa di nuovo, che può cambiare, e che possiamo cambiare.
È proprio il cambiamento, infatti, ciò che sta all’origine di ogni azione educativa. Il fatto di scoprirsi all’interno di un processo in divenire rende l’educazione una delle principali necessità della vita. Ci si trova a vivere in un contesto socio-culturale di cui non è possibile fare a meno; la trasmissione di generazione in generazione di saperi e valori è quindi fondamentale per la comprensione della società di cui ognuno è partecipe.
Allo stesso tempo, il cambiamento sta al termine di ogni azione educativa. Io educo perché voglio che qualcosa cambi, perché intendo avviare un atto di trasformazione del mondo e della società. Non un passare il testimone di leggi immutabili, sempre uguali a loro stesse; bensì un atto creativo e generativo, che vede nel presente il luogo di gestazione dell’uomo di domani.
Perché ciò possa avvenire, la scuola del leggere, scrivere e far di conto (si intuisce facilmente) non basta. Il nostro è un mondo complesso, molteplice, e molteplici devono essere le esperienze che si scelgono per formare una persona.
L’educazione alla musica assume, all’interno di questa visione, un ruolo fondamentale e a cui è impossibile rinunciare senza danni irreparabili. Fare musica mette in moto facoltà intellettive particolari, che nessun’altra attività può stimolare; richiede di porre in gioco le proprie competenze e il proprio sentire all’interno di un gruppo, potenziando quindi le attitudini relazionali e di incontro con l’altro; affina le nostre capacità di ascolto; ci fa entrare in contatto con la nostra emotività e sensibilità, con un livello di astrazione irraggiungibile per altre vie; e, soprattutto, è un fuoco che accende la fantasia e che estende le nostre competenze immaginative, donando a ognuno di noi l’occasione di creare qualcosa. Non ho mai parlato con Pierre Anthon, ma credo che sia verosimile pensare che per ritirarsi dalla vita a tredici anni occorra non aver ricevuto dai “grandi” almeno qualcuna di queste preziose opportunità.
Ecco perché ogni tanto sarebbe bello (e vi invito a farlo) buttarsi alla ricerca di quel flauto o di quella chitarra che «chissà da quanto…». Non occorre saper leggere il setticlavio, cantare tutte le note intonate o non “steccare” mai: ciò che davvero importa è ridestare quella dimensione di creatività assopita ma sempre presente in fondo alla nostra anima, che sta alla base della nostra identità, della nostra unicità, della nostra libertà.
Non ci si emancipa soltanto con la parola; credo quindi sia lecito ampliare il motto di Gianni Rodari, e dire: «Tutti gli usi del linguaggio a tutti. […] Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia più schiavo».
Marco Russo
Marco Russo è un musicista e insegnante, diplomato in saxofono al Conservatorio di Milano. Parallelamente all’attività strumentale, si occupa di didattica, educazione e tiene laboratori di musica per bambini. Attualmente studia Scienze della Formazione Primaria.