ARTICOLO 007:
L’orecchio (da solo) non basta.
Perché è necessario scommettere sulla musica
L’immagine di un bebé con sproporzionate cuffie ci strappa un sorriso: è buffo il contrasto tra tecnologia e innocenza, tra sofisticazione hi-tech e tenerezza.
Certamente non mi riferisco a immagini che inquadrino momenti importanti di studi scientifici o di cura: penso invece a quelle ammiccanti che si incontrano a corredo di un articolo di giornale, su una locandina di eventi per l’infanzia, su una pagina web, su una copertina o nella pubblicità di una casa discografica.
Dalla trovata pubblicitaria a una modalità per proporre musica ai bambini, tuttavia il passo è breve. Un punto interrogativo interrompe il sorriso spontaneo: forse alcuni riterranno davvero che le cuffie siano un buon sistema per proporre musica a bambini della fascia 0-3 anni?
Provo a valutare se ciò possa costituire una proposta valida, ma mi convinco sempre più del contrario e non solo per salvaguardare l’apparato uditivo dei neonati e un percorso progressivo di costruzione di una realtà spaziale-acustica che dia loro moltissime informazioni su come situarsi e orientarsi nel mondo (a partire proprio dall’individuazione della fonte sonora).
L’infanzia è infatti un momento prezioso in cui ‘prendersi cura’ dei nostri piccoli e ciò significa innanzitutto accompagnarli nelle loro esperienze e condividerle: relazionarsi con loro e non escluderli o escluderci da ciò che vivono e provano, anche se si tratti dell’ascolto di un brano musicale.
Potrebbero le cuffie essere metafora di un ennesimo ‘delegare al mezzo’, ciò che in fondo si reputa di non saper fare in prima persona? ma con i bambini sappiamo che non ci resta che metterci in gioco, perché imparano dal nostro atteggiamento e dal nostro esempio.
La musica è relazione, prima che intrattenimento.
È ascolto totale: non solo con le orecchie, ma con un corpo che vibra, libero di muoversi e di essere mosso dalla musica; in cui il suo stesso ‘essere nello spazio’ modifica la percezione del suono che si ascolta (ma ciò non accade se la fonte sonora è direttamente a contatto del nostro apparato auditivo).
È provare come la propria voce si accordi al suono ascoltato o se ne differenzi o lo superi (ma con le cuffie la nostra voce risulterà molto meno percettibile e su un piano diverso, sfalsato).
La musica è un importantissimo balbettio congiunto tra imitazione e proposta, se cantiamo indirizzandoci alla nostra o al nostro bambino, guardandola/o e ascoltando ciò che lui vuole rimandare a noi.
La musica, nella prima infanzia, è un commovente dialogo di affetti e un continuo scambio di emozioni che sarebbe auspicabile vivere nella realtà di uno spazio vero e condiviso.
La musica si apprende con le stesse modalità con cui si apprende il linguaggio, fin dalla nascita. Abbiamo bisogno di ascoltare musica innanzitutto attraverso l’insostituibile voce delle persone più vicine e care e poi in tutte le occasioni vi sia musica dal vivo.
L’offerta musicale per l’infanzia non manca: abbiamo la fortuna di poter ascoltare concerti e opere per bambini e famiglie, di impianto pedagogico.
Abbiamo la possibilità di ascoltare musica registrata di qualità con i nostri bambini, grazie ai libri musicali che sono materiali versatili di vario contenuto: dalla musica classica, al jazz, al melodramma, a raccolte di canzoni, alla musica di luoghi lontani da dove abitiamo, quando non si tratta di progetti originali, assai curati e validi. Queste pubblicazioni, disponibili in tutte le biblioteche, permettono a piccoli e grandi di acculturarsi sui timbri degli strumenti, entrare in contatto con i grandi capolavori della musica, con i suoi protagonisti, etc. All’ascolto si affianca il piacere del racconto, delle rime, delle immagini e delle informazioni. Esistono poi valide raccolte per l’infanzia e liste e cataloghi su supporti, app, portali e biblioteche digitali.
La musica registrata può essere sublime e perfetta e può aprirci a un mondo veramente ricco e vario, ma la voce della mamma o del papà è insostituibile: abbiamo assolutamente bisogno di entrambe, della forma d’arte più raffinata, della varietà del mondo, di un libro musicale a cui affezionarci e infine di quel fil di voce unico e prezioso che va da cuore a orecchio.
Ma quanti genitori cantano? quanti nonni osano farlo? e quanti educatori, bibliotecari, insegnanti (o professori)?
Chi poi di noi non ha provato vergogna a cantare di fronte a qualcun’altro?
La voce che canta dal vivo, nello spazio, rivela la nostra essenza molto più di quanto faccia la nostra voce parlata, a cui siamo certamente più abituati. La voce cantata ci mette a nudo e dà anima ai sentimenti: per questo è tanto necessaria nella prima infanzia, per i nostri bambini, e per questo dobbiamo cercare di cantare per loro, per quanto goffi, inesperti e timidi siamo. Anche se siamo stonati?! si, anche se siamo stonati, dato che i genitori e gli educatori del nido sono le uniche categorie a cui sono concesse le stonature, purché cantino ai bambini; se poi si impegneranno e non alzeranno il volume in modo da riuscire ad ascoltarsi, vedranno che con il tempo potranno migliorare.
Se cantare fosse una consuetudine, credo che sarebbero molto rari gli stonati, ma purtroppo così non è. Ci sentiamo autorizzati a cantare e a suonare solo in luoghi e in circostanze particolari: una festa di compleanno (con quell’unico brano che costituisce il nostro repertorio collettivo), una cerimonia religiosa, la folla di un concerto o di uno stadio (in cui nascondersi) o all’interno di un’istituzione come un coro.
La varietà, le diversità sono importanti e diventano indispensabili in un contesto in cui prevale la musica commerciale. Il peggior difetto di tale musica è l’estrema semplificazione cui viene ridotta per renderla accessibile al pubblico più vasto (metro binario, modo maggiore, armonia elementare, ripetitività, brevità di frasi). È una musica onnipresente e, se non si è avvezzi a varietà di proposte, è facile assuefarsi e accontentarsi, senza sospettare tutto ciò che invece può offrire il mondo musicale, se solo venissero forniti a tutti i mezzi per comprenderlo.
Sarebbe davvero importante poter far musica in prima persona e condividerla almeno in ambito familiare e sulla base di un repertorio comune, transgenerazionale, che al momento abbiamo perso.
Per far questo, per ricostruire rapidamente ciò che è andato perduto e già che ci siamo fare anche di più (dato che la democrazia ci ha giustamente aperto ad ambiti di formazione e conoscenza che prima erano assolutamente elitari), sarebbe importante poter avere una guida, fin dall’infanzia, che ci sappia spiegare, raccontare, insegnare la musica, rivelandocene i segreti, il pensiero, l’architettura e i componenti. Una guida che ci permetta di cominciare a giocare con gli elementi della musica così come si fa con il Lego o altri materiali didattici: partendo dal semplice per arrivare al complesso. Se potessimo contare su insegnanti di musica preparati e che abbiano gli strumenti pedagogici adeguati a operare nell’ambito della prima infanzia, così come accade per altre materie insegnate a scuola, potremo dominare la sintassi musicale, il pensiero musicale e utilizzarli creativamente. L’ascolto ‘passivo’ ed esclusivamente emotivo lascerebbe il passo a un ascolto consapevole, accresciuto da una coscienza analitica, con il vantaggio di trarre dalla musica maggior gusto, interesse e piacere.
Oltre a essere un motore emozionale, la musica è infatti pensiero, architettura e storia, identificabile all’ascolto nelle sue componenti strutturali e stratigrafiche. Con semplici spostamenti di toni, semitoni e poco altro ci si può ritrovare in Oriente o nel Medioevo, a New Orleans o a Buenos Aires; si può creare suspence o distensione. Basta saperlo fare e soprattutto non perdere la fiducia che ‘sia possibile’ imparare a farlo.
Dalla fine dell’Ottocento la pedagogia ha riflettuto su come proporre le arti ai bambini e il Novecento ha prodotto scuole di pensiero e metodologie di grande portata innovativa, alcune delle quali sono nate o hanno trovato terreno in Italia. La nostra scuola non ha tuttavia raccolto questa ricchezza, con un danno cui da un secolo cercano di porre rimedio, tavoli, commissioni, forum, comitati e associazioni, oltre a qualche illuminato ministro.
La musica venne esclusa dalle classi superiori, con la Riforma scolastica attuata nel 1922 dal ministro Giovanni Gentile. Da allora, la musica non entrò mai a far parte del curriculm scolastico di coloro (i liceali) che erano destinati a formare le future classi dirigenti. Questo è il motivo per cui sappiamo chi è Giuseppe Garibaldi o Raffaello, ma non Josquin Desprez; cos’è l’impressionismo, ma non una ‘forma-sonata’; qual è la formula molecolare dell’acqua, ma non cosa significhi ‘tonica’ o ‘dominante’, etc.
Ancora al giorno d’oggi la musica appare sporadicamente nei primi cicli scolastici (nido, infanzia). Alla scuola primaria è a discrezione del dirigente avviare laboratori di musica (non veri e propri corsi) e sta alla buona volontà di insegnanti senza competenze specifiche, cercare di fornire degli elementi di musica ai bambini. Dal 1962 la musica è presente con docenti specializzati solo alle ‘medie’; dal 2010 è concentrata in alcuni licei musicali, preferendo a un’alfabetizzazione musicale generale della popolazione, il potenziamento di pochissimi individui, già formati peraltro autonomamente.
L’istruzione musicale è dunque frammentata, inefficace e basata su ‘programmi scritti’ ambiziosi ma irrealizzabili, se manca chi abbia le competenze per metterli in pratica.
Eppure qualcosa, dal basso, come sempre si muove.
Dagli anni ‘70, diversi musicisti si erano impegnati per innovare l’educazione musicale nei corsi istituzionali delle scuole medie (dalla Riforma del 1962). Ai ragazzi, che a 11 anni erano ancora digiuni di musica, i giovani insegnanti da quell’epoca a oggi hanno portato nuovi elementi e una nuova professionalità didattica, sperimentata sul campo, grazie anche agli scenari didattici aperti da istituzioni quali la SIEM (Società Italiana di Educazione Musicale attiva dal 1969, dopo la riforma scolastica del 1962) e a corsi di formazione proposti da alcune associazioni e frequentati spesso per iniziativa propria. Abbiamo assistito ai ‘miracoli’ di orchestre scolastiche (l’Orchestra Felice), fonte di esperienze entusiasmanti per i ragazzi, e addirittura di grandi concerti, con musiche scritta appositamente per orchestre scolastiche (Scuola Musica Festival).
A partire dallo stesso periodo diverse associazioni avevano cominciato a proporre percorsi di “propedeutica” musicale (dai 4 anni in su) con le linee metodologiche messe a punto da grandi didatti del Novecento: Orff, Willems, Kodaly, Suzuki, etc.
Nel 2000 era poi approdata in Italia, grazie ad alcune associazioni, la Teoria dell’Apprendimento della Musica di Edwin Gordon, studioso interessato all’ambito pedagogico, sociologico, scientifico e musicista, che aveva operato una sintesi di saperi e pratiche novecentesche, mettendola alla prova con studi sul campo. Tale teoria individua nella primissima infanzia (in linea con l’ECD) il momento maggiormente favorevole per sviluppare le competenze musicali e portare poi al massimo livello la potenzialità di apprendimento della musica, presente in ciascuno di noi. In Italia venne così avviato un lavoro del tutto pionieristico con bambini molto piccoli.
Sempre nel 2000, grazie alla diffusione in Italia della teoria sull’ECD – Early Childhood Development, si acquisì la consapevolezza dell’importanza di promuovere interventi ‘precoci’, fondamentali per lo sviluppo neurologico e psicologico dei bambini e per contrastare situazioni di svantaggio sociale. Dal momento che lo sviluppo delle nostre facoltà è determinato dall’ambiente, quanto più ricca sarà l’offerta linguistica, culturale, artistica, educativa, dell’ambito familiare e sociale, tanto più un bambino ne verrà nutrito, creando una rete neuronale vasta, efficiente e connessa, presupposto per il successivo sviluppo cerebrale/cognitivo e per l’apprendimento.
Fu in questo contesto che, nel 2006, i musicisti (minuscola parte della società) si svegliarono un giorno increduli di fronte a ciò che accadeva: i pediatri dell’Associazione Culturale Pediatri, ovvero medici, ricercatori, professori, scienziati, dichiaravano la musica di fondamentale importanza per lo sviluppo neurologico e psicologico del bambino: l’evidenza scientifica di ciò si basava su anni di ricerche interdisciplinari (medicina, biochimica, fisica, psicologia, scienze sociali, statistica, etc.) in campo internazionale. Non solo: con questa solida convinzione, l’Associazione Culturale Pediatri assieme alla Società Italiana per l’Educazione Musicale e al Centro per la Salute del Bambino creavano un progetto per sostenere la pratica della musica a partire dalla primissima infanzia: il Programma nazionale Nati per la Musica.
Una straordinaria opportunità e al contempo una grande responsabilità per i musicisti, che in realtà già si erano mossi in questo senso. Immaginate tuttavia di piazzare un bebé sulla poltrona di una sala da concerto, addormentarlo in braccio a un soprano d’opera mentre canta o proporgli un ascolto ininterrotto di 30 minuti e capirete come mettere in pratica tali propositi non sia né facile né scontato, poiché è importante proporre ai bambini dei capolavori d’arte, ma allo stesso tempo ciò va fatto in un contesto pedagogicamente adatto alla loro voracità intellettuale ma anche alle loro esigenze ed energie.
Si trattava di fare e inventare semplicemente qualcosa che non si era mai fatto; di organizzare qualcosa di cui non c’era tradizione, né esperienza: coniugare musica e pedagogia, canti e analisi schenkeriana, inventare spazi vuoti e senza pericoli in cui genitori e bebé potessero condividere momenti di assoluta intensità e in cui i bambini -mossi dalla musica – potessero correre, rotolare o anche sdraiarsi, rilassarsi, addormentarsi…. rincorsi da mamme e papà scalzi, in situazioni imbarazzanti e gioiosamente inaspettate; creare e insegnare repertori, districarsi tra metri e modi inusitati per offrire la massima varietà, indurre a cantare adulti che a cantare non avevano mai pensato e si illudevano di delegare tutto all’insegnante, per poi scoprire che il loro apporto e il loro esempio erano di fondamentale importanza. Diffondere l’importanza di tale approccio, creare professionalità, inventare concerti per famiglie, etc. etc.
Insomma: uno scenario nuovo dalle incredibili potenzialità.
Dobbiamo molto a tutti i musicisti che con studio e passione e poco aiutati dalle istituzioni, si sono messi in gioco in un compito così difficile e si sono impegnati negli anni per trasmettere la musica a neonati, famiglie e ragazzi, al fine di crescere persone capaci di ascoltare, capire, creare musica.
È dovere ricordare che coloro che si sono sperimentati nella musica per neonati, nel ventennio 2000-2020, sono stati in gran parte giovani che si affacciavano al mondo del lavoro, che si formavano a loro spese presso le associazioni che proponevano quello che all’epoca era un percorso innovativo e inusuale, che si accontentavano di stipendi irrisori e che spesso non hanno nemmeno potuto continuare per ragioni economiche in questa missione difficilissima a cui hanno regalato gli anni migliori.
Ricordiamoci infine dell’apporto di diverse associazioni musicali del terzo settore, di quelle che propongono in Italia attività musicali e con persone diversamente abili (Orchestra Esagramma), quelle che si occupano di cori e orchestre giovanili (SONG, in Lombardia), sul modello venezuelano e ora mondialmente diffuso del Sistema di cori e orchestre giovanili di José Antonio Abreu e non dimentichiamo le bande musicali: anch’esse realtà di formazione e divulgazione musicale sempre più aggiornate e ambiziose.
La passione e la competenza ci sono: basterebbe trovare il giusto coordinamento e un degno spazio nella scuola, affinché tale ricchezza creativa si possa poi riversare nella società.
Dobbiamo scommettere che la musica ci aiuterà a costruire un modello sociale virtuoso (ne sono già esempio El Sistema e la West-Eastern Divan Orchestra), poiché ha il potere di convogliare i nostri sentimenti più diversi ed estremi in un risultato conciliatore di bellezza, in una sorta di parentesi esistenziale in cui non siamo ‘il singolo’ con tutti i suoi difetti, ma un tassello creativo all’interno di un’opera d’arte collettiva e condivisa.
Bisogna prenderne coscienza, togliersi le cuffie (né metterle ai bebé) e far si che questi anni ’20 rappresentino l’attesa svolta.
Anna Cattoretti
www.musicaperbambini.eu
I contenuti qui presentati sono stati in parte pubblicati dall’autrice nel numero speciale dedicato alla musica della rivista LiberWeb 130 ‘Crescendo in musica’, articolo: ‘Il bebé e l’orchestra’.
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